Domande di Carlo Marino per un’intervista (esclusiva) sicuramente difficile alla scrittrice Ilaria Palomba

• “Homo homini virus”, “Deserto”, “Mancanza”, “Brama”, “Fatti male”, “Una volta l’estate”: i titoli di alcuni dei tuoi volumi. Leggendo, sembra che nel nostro mondo si giochi di continuo una partita in cui è impossibile giudicare vincitori e vinti, perché vittime e carnefici camminano su un piano sempre in bilico. Che ne pensi?

Credo sia esattamente così, nei miei libri ci sono spesso vittime che diventano carnefici, un po’ come Joker… sorrido. È paradossale, inverosimile e troppo borghese pensare di poter ledere nel profondo qualcuno senza che questi si rivolti cercando vendetta. Questo meccanismo vale nelle relazioni interpersonali come nelle dinamiche sociali: nessuno ama avere padroni e nessuno ama i suoi padroni. Se considerati subalterni, maltrattati, bistrattati, sfruttati, sottopagati, illusi, ingannati, abbandonati gli esseri umani reagiscono, talvolta il portato di questa reazione supera l’offesa subita. In fondo è il meccanismo alla base di tutti i conflitti.

• Nel tuo libro “Disturbi di luminosità” la vicenda si svolge nella mente di una donna che non ha nome. La protagonista soffre di un disturbo borderline di personalità. Violenza e dipendenza sono due caratteristiche che attanagliano oggi più che mai l’essere umano. È stato sempre così?

Per rispondere correttamente a questa domanda sarebbe necessario aver vissuto altrove e in un altro tempo. Non so se sia stato sempre così, posso ipotizzare che la religione in passato avesse anche il compito di porre un freno agli istinti più violenti dell’uomo. Dopo la nietzscheiana morte di Dio tutto è permesso. L’uomo, quando ha potuto scegliere, ha scelto il male. Il bene personale spesso coincide con il male di qualcun altro, nel momento in cui si relativizza il concetto di bene e si arriva a decretare l’impossibilità del sommo bene ecco che l’uomo diventa Dio di sé stesso e sceglierà solo per sé stesso senza curarsi del male che procura all’altro. Penso anche però che la morte di Dio sia una fase superata e che sia un altro il lutto che oggi dobbiamo elaborate: la morte dell’uomo, la fine cioè del concetto di umano come animale razionale. Probabilmente non solo non siamo più animali, sempre più diventiamo appendici di macchine, ma non siamo più neanche razionali. Dopo Dio doveva sparire anche la ragione, cosa ci aspetterà non posso saperlo ma penso che la crisi nelle relazioni con gli altri e la diffusione dei disturbi del comportamento siano da leggere in questo senso.

• “Spesso il male di vivere ho incontrato” cito Montale per definire quell’ Io narrante che sovente utilizzi. Il personaggio si muove in una realtà opaca che si staglia icasticamente nella mente del lettore. Ci sarà mai un modo di redimersi dal male ricevuto e a volte sopportato in questo mondo?

Montale, Pavese, Pascoli, la poesia per me è tanto più viva quanto più si avvicina alla morte (per quanto riguarda Pascoli penso a Myricae).
È molto raro che vi si riesca ma l’unico modo per redimersi dal male subito è non perpetrare la catena di dolore, spezzarla. Finché si è carnefici si continua a essere vittime. Ma come vivere nel mondo senza farsi divorare e senza divorare a propria volta? Forse bisogna fare un passo indietro rispetto a tutto ciò che crediamo di essere: i dominatori del mondo, della natura, le uniche forme di vita intelligenti nell’universo, il centro della catena alimentare. Non siamo nulla di tutto ciò, non siamo che briciole.

• Il tuo rapporto con la parola: la tua parola è parola ritrovata in te stessa, oppure parola della quale vai alla ricerca finché non la fai tua per sempre?

Ho una grande difficoltà nel comunicare, l’ho sempre avuta, tanto che da adolescente per un po’ non ho parlato. Scrivere è ritrovare le parole che mi ero proibita di dire perciò il mio rapporto con la parola è catartico, è una costante ricerca dell’indicibile.

• La poesia può essere considerata come un azzardo per tentare di decifrare il mondo?

La poesia per me è un demone, in senso socratico. Attraverso la poesia vedo l’invisibile e cerco di mostrarlo a chi mi legge.

• La letteratura deve descrivere in maniera impassibile, direi oggettiva, anche la miseria del mondo e poi deve impegnarsi per tentare qualche salvataggio? Oppure è già impegno, denuncia, nel solo atto di descrivere?

La letteratura non deve essere una fotocopia della realtà, non basta descrivere, non basta avere delle idee sul mondo, non basta comunicare. La letteratura deve trascendere la volontà di chi scrive e rapire.

• Società che distruggono i propri poeti ignorandoli, che tipo di società sono, secondo te, e che futuro possono avere?

Una società che non ha più un metro di giudizio artistico e si basa solo sui dati di vendita o sui consigli di chi fa audience è una società ormai ben oltre il declino, non è altro che macerie, in queste macerie si salva chi fa lobby. La domanda che spesso mi pongo senza trovare risposta è: conta più il talento o l’affabilità? Se la risposta verte sul secondo termine allora non esistono più poeti, solo eruditi e mercanti.

• Grazie Ilaria.

Ilaria Palomba è nata a Bari nel 1987 dove si è laureata in Filosofia per poi specializzarsi presso l’Université de Paris-Sorbonne nel 2011-2012. Ha al suo attivo oltre a numerose raccolte di racconti e poesie: i romanzi Fatti Male (Gaffi 2012 tradotto e pubblicato in tedesco per la Aufbau-Verlag con titolo Tu dir weh) “Homo homini virus”, “Deserto”, “Mancanza”, “Brama”, “Una volta l’estate”.

intervista esclusiva copyright -2020 by Carlo Marino #carlomarinoeuropeannewsagency

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