Carlo Marino intervista il poeta Gabriele Tinti


Intervista a Gabriele Tinti (Carlo Marino)

Non è cosa facile intervistare un poeta e soprattutto un poeta che si ispira deliberatamente al mondo classico. Come è nato in te il rapporto con l’antichità dell’occidente europeo?

Grazie a Johann Joachim Winckelmann e Friedrich Nieztsche, le mie prime letture, quelle che mi hanno formato. Nieztsche in particolare fu una rivelazione. La sua era una grecità vitale, violenta, esplosiva, dionisiaca. Non c’è dubbio la cultura greca riviva in noi. D’altronde i fantasmi non vengono mai a inquietare le cose morte. La mia poesia è appunto una fantasmagoria, una serie che fa parlare le spoglie, i frammenti, quel che resta tra le rovine. Perché lo spirito del mondo antico ritorna ogni volta che si esprime un’estetica dell’essere tragico, dell’essere patetico.

La contemporaneità ci presenta un sostanziale immobilismo, una mancanza di ispirazione ed una mancanza di profondità e di originalità spesso dovuta alla mercificazione totalizzante e globalizzata. Nonostante ciò, i poeti continuano ad ispirarsi e a creare, per fortuna, come un fiume carsico. Oggi il poeta ha ancora un ruolo sociale?

Certamente gli artisti, i poeti, continuano ad esistere. Altri ne verrano “poiché la terra ne crea ancora come ne ha sempre creati” diceva Goethe. Pure dobbiamo riconoscere che la nostra poesia non ha più la forza di farsi mito. Non va al di là del monologo.
Inevitabile non esser più centrali.

Esiste il rischio che il veicolo del messaggio diventi più importante del contenuto?

Purtroppo in questo dipendiamo dal lettore. Siamo sicuri che ci sia un pubblico oggi capace di andare oltre i premi Strega, i romanzi, la “letteratura”?

Hai composto versi sui personaggi della mitologia occidentale. Qual è il personaggio che potresti considerare più vicino al giorno d’oggi?

Ce ne sono molti ma naturalmente Dioniso è colui che ha informato la cultura in seguito all’enorme influenza avuta dal pensiero di Nietzsche.

La suggestione che si sente scorrere nei tuoi versi è quella dell’incanto provato di fronte al mistero, alla scomparsa di un mondo. In fondo i tuoi versi nascono spesso di fronte a frammenti, a “disiecta membra”. C’è ancora la possibilità di affascinarsi di fronte al mistero, all’incompiuto, al non detto?

Sì, è da sempre l’unico spazio di creazione possibile. Forzare i propri limiti, trasfigurare le proprie paure per provare a colmare quello che manca, il vuoto, l’ignoto, è la necessità che muove il poeta.

La tua opera poetica porta il lettore in una sorta di museo impossibile. Che ne pensi?

La mia poesia è preparazione alla morte, preghiera, lamento. Non so dove conduca il lettore. Certamente non lo rassicura.

Chi sono stati i tuoi maestri?

Archiloco, Anacreonte, Leopardi, i romantici tedeschi, i russi: Sergej Esenin, Aleksandr Blok, Vladímir Majakóvskij e poi Jake La Motta, An-gelo Dundee.

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